| “Mi
      faccio vedere in giro con attori del calibro di Robert De Niro e Dustin
      Hoffman per essere più credibile come attore drammatico”. Incontro con
      Bill Murray Giorgia Bernoni Esce nelle sale “Lost in Translation”, film che racconta l’incontro di due americani sperduti in un hotel di Tokio. Accanto alla delicata Scarlett Johansson, troneggia Bill Murray in una notevole prova istrionica che coniuga fisicità e tenerezza. A Roma si è presentato con aria casual e barba incolta rispondendo alle domande in un buffo italiano.  | 
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        Cosa l’ha colpita inizialmente del Giappone? Il mio primo viaggio in Giappone è stato nelle campagne del Sud e sono stato sorpreso di trovare l’atteggiamento di queste persone nei confronti dei cittadini di Tokio uguale a quello che in America hanno coloro che non sono di New York verso gli abitanti di New York e come qui in Italia i romani parlano dei milanesi. Prima di partire avevo i classici pregiudizi che si hanno sui giapponesi, luoghi comuni quali essere dei grandi lavoratori e dei fotografi instancabili. Invece mi sono reso conto che sono persone molto disponibili, simpatiche e curiose con una cultura capace di essere all’avanguardia ed estremamente tecnologica ma allo stesso tempo ancora intatta e tradizionale. Può farci un esempio dell’humour nipponico? Non
        conosco barzellette giapponesi… Il primo periodo in cui sono arrivato
        in Giappone avevo con me un libretto con tipiche frasi fatte, di quelli
        che utilizzano gli studenti per rimorchiare le ragazze del posto, con
        frasi del tipo: “Usi il preservativo?”. Confrontarmi con loro
        tramite queste frasi pronte è stato molto divertente. Ho notato anche
        che loro ridevano molto con me, non so se ridevano di me e se questa sia
        una cosa negativa o positiva. La sua partecipazione nei film è sempre una garanzia di riuscita. Lei possiede qualità importanti come l’ironia, la leggerezza ed un’estrema malinconia. Sono
        perfettamente d’accordo… Credo di avere abbastanza senso
        dell’humour e di metterlo in quello che faccio, anche se a dire il
        vero tutti pensano di averlo. L’attore che sono oggi è sicuramente il
        risultato delle mie esperienze passate e non solo lavorative. Anche la
        malinconia ha a che fare con l’esperienza e credo che tutto questo sia
        il risultato tra quello che si è realmente e quello che si vorrebbe
        essere.  In America il film esce censurato. Cosa ne pensa? Sono
        sorpreso, lo vengo a sapere solo ora. E’ ridicolo. Il primo ruolo drammatico che ha interpretato risale agli anni ’80. Allora il pubblico e la critica non furono forse pronti a vederla in tale ruolo e non sembrarono accettare la cosa. Ora con “Lost in Translation” sembra che finalmente tutti si stanno rendendo conto della sua bravura e credibilità anche in ruoli drammatici. Un’espressione
        in inglese dice: “Il tempo guarisce tutti i mali”. A quell’epoca
        ero conosciuto per le commedie che interpretavo e forse ho creato
        disorientamento nello spettatore. Credo che “Ricomincio da capo”
        abbia significato un punto di svolta in questo senso. Poi ho iniziato a
        lavorare con grandi professionisti e ho cominciato a farmi vedere in
        giro con attori del calibro di Robert De Niro e Dustin Hoffman per
        essere più credibile come attore drammatico. Comunque credo che il
        segreto per una buona recitazione sia imbattersi in personaggi ben
        scritti e ben delineati, cosa che a me fortunatamente è successa.
        Oppure, semplicemente, è probabile che quando ho iniziato a ricoprire
        certi ruoli non ero ancora sufficientemente preparato.   | 
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        Nel finale del film l’ultimo dialogo tra i due protagonisti viene appositamente reso inascoltabile. Lei come giustifica questa scelta? Sarebbe
        interessante sapere quale frase le persone avrebbero voluto ascoltare in
        quell’occasione. Credo che se i due protagonisti avessero cercato di
        spiegare ai loro amici, anche ai più intimi, quello che gli è capitato
        non avrebbero trovato le parole giuste per descrivere quella particolare
        esperienza. Che rapporti ha con Hollywood, è facile trovare la sceneggiatura giusta? Sono
        nato e cresciuto in una grande metropoli quale Chicago e per me
        Hollywood rappresenta solo una piccola cittadina di provincia. Non mi
        piace vivere lì perché tutti i suoi abitanti lavorano nel cinema e si
        parla sempre e solo di quello ed alla fine la cosa può risultare molto
        noiosa. Vivo a New York una città decisamente più eterogenea e
        interessante e Hollywood rappresenta il lavoro. Per quanto riguarda le
        sceneggiature, essendo io una persona tendenzialmente pigra, non ho mai
        arrancato dietro di loro. Credo che il segreto sia 
        di non farsi vedere troppo disperato. In questi ultimi anni sono
        stato felice del fatto che mi sono arrivate sempre ottime proposte. “Lost in Translation” è stato nominato per gli “European Awards” e per gli “Independent Spirit Awards. Facendo i dovuti scongiuri a quando l’Oscar? Gli
        “Independent Spirit Awards” sono la versione comunista degli Oscar
        per cui non spargiamo troppo la voce in giro per evitare futuri problemi
        di lavoro… Spesso
        dopo aver ricevuto l’Oscar cominciano le difficoltà, su di loro forse
        c’è una specie di maledizione. Mi piace il mio lavoro e cerco sempre
        di farlo al meglio, ricevere dei premi rappresenterebbe soltanto avere
        dei riconoscimenti in più.  | 
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